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212 | EURIPIDE |
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Nel complesso, l’Ifigenia si deve certo annoverare fra i bei drammi d’Euripide. Ma io rimango un po’ perplesso quando vedo l’elogiativo coro dei critici1 , che con la sua unanimità, col suo entusiasmo, sembra quasi assegnarle un posto d’eccezione. E piú mi sembra sospetta una lode che vedo ripetuta da tutti. Udiamola nelle parole di Enrico Weil2. «In questa tragedia — dice il maestro — Euripide ha adoperati con discrezione gli effetti drammatici che egli sapeva cosí ben maneggiare. Si può temere che il fratello sia ucciso dalla sorella; ma la spada non è ancor levata su la vittima. Il sacrificio è annunciato, ma non ancora iniziato, quando giunge il riconoscimento. Pilade dichiara che non abbandonerà il suo amico; ma poi si arrende agli assennati ammonimenti coi quali Oreste lo distoglie da una inutile devozione. Tutto è temperato in questo bel poema, tutto concorre a produrre l’impressione che ne forma il piú grande fascino, ma che è difficile definire. Ci sentiamo commossi, e tuttavia ci sentiamo al disopra dell’emozione che proviamo».
Sta bene. Però, questo sentirci al di sopra dell’emozione, significa, se non erro, che non ci sentiamo troppo commossi. È, di fatti, quello che interviene a me.
E quel quid che il Weil dichiara non definibile, è, viceversa, quella temperanza che egli esalta. Temperanza che in sostanza è il trionfo del razionalismo. Il quale, allorché diviene Musa e guida ai poeti, ispira ad essi prodotti che docilmente si offrono alle analisi dei critici, e si lasciano rovesciare, fogliolina per fogliolina, e svelano sino all ultimo i