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di chi la regge; e pur n’ha mala fama.
Ippomedonte è il terzo. Ei, da fanciullo,
subito rinunciò con fermo cuore
delle Muse ai piaceri, al viver molle.
E pei campi abitando, esercitandosi
a dura disciplina, e compiacendosi
d’ogni opera viril, cacciando fiere,
agitando cavalli, archi tendendo,
rendeva alla sua patria utile il corpo.
È d’Atalanta cacciatrice il figlio
l’altro, Partenopèo, che fu garzone
bellissimo di membra. Era d’Arcadia;
ma su l’Inaco venne, ed allevato
in Argo fu. Qui fu nutrito, e mai,
come s’addice agli ospiti, non fu
oggetto d’ombra o di fastidio, mai
le liti non amò, che inviso rendono
piú d’ogni cosa il cittadino e l’ospite.
Parte facea di nostre schiere, come
fosse un argivo, e difendea la patria.
E, se fortuna ci arridea, gioiva,
nei tristi eventi era crucciato. Molti
per lui d’amore ardeano, e maschi e femmine:
solo ei badava a non cadere in fallo.
Con brevi motti di Tidèo farò
un grande elogio. Insigne egli non fu
per l’eloquenza: la sua gran dottrina
era nell’armi; e qui molte scoperte
ingegnose faceva. A Meleagro
fratello suo cedea per senno; ma
nell’arte della lancia uguale nome
s’era formato; ché sottile artefice
era, ed era lo scudo la sua cétera.