era un colpire, un cadere, un rivolgere
l’uno all’altro grandi urla eccitatrici:
«Picchia sodo! La lancia appunta contro
la gente d’Erettèo!» — Salde alla lotta
eran le schiere dei guerrieri nati
dai denti del dragone8; e l’ala manca
nostra, piegava già: quelli cedevano
invece a dritta; e ugual pendeva l’esito.
E qui degno di lode il duce fu:
ché non ristette solamente a cogliere
della vittoria i frutti; ove cedevano
le sue schiere, si spinse, e un urlo alzò,
alto cosí, che n’echeggiò la terra.
«Figli, se non reggete di questi uomini
nati d’un drago all’aspra asta, è finita
la fortuna di Palla». In cuore ai nati
dalla roccia, cosí coraggio infuse.
Ed egli stesso, l’arma d’Epidauro9,
la terribile clava in pugno stretta,
come una fionda la vibrava in giro
su le cervici e su le teste, e gli elmi
falciava, al par di spighe, al par di canne.
Furono infine, a stento, in fuga volti.
Ed io battei le mani, e grida alzai
di vittoria, e danzai. Quelli fuggirono
verso la porta. E in tutta la città
suonavan pianti ed ululi di giovani
e di vegliardi; e tutti lo sgomento
addensava nei templi. E i muri facile
era varcar; ma i suoi contenne Tèseo,
ché non ad espugnar Tebe, diceva,
ma le salme a cercare era venuto.
Un tale duce eleggere bisogna,