Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/235

232 EURIPIDE

non puoi, che ammaestrar l’altrui pensiero
ben sa, ma gravi traversie procura
a sé stessa, da sé. Poscia, pensai
sopportar questa mia follia, domandola
con la saggezza. E quando infine vidi
ch’io non potea con ciò vincere Cípride,
deliberai d’uccidermi: consiglio,
chi negare lo può?, risolutissimo.
Deh, non sia ciò, che quando il bene io faccio
resti celato, e quando il male, m’abbia
copia di testimonii. Ed il mio stato
e la mia malattia, sapevo ch’era
vituperosa; e ch’io, femmina essendo,
l’odio sarei di tutti quanti. Oh, piombi
la mala morte su colei che prima
tradí lo sposo con estranei drudi.
E dalle case incominciò dei nobili
questa vergogna fra le donne a spargersi:
ché quando ai grandi alcuna turpitudine
piace, ben presto piace essa anche ai piccoli.
Ed anche quelle donne odio, che caste
sono a parole, e di soppiatto indulgono
a tristi audacie. O veneranda Cípride,
e come gli occhi alzar nel viso possono
al loro sposo? E il buio non paventano,
complice loro, e della casa i tetti,
che levino la voce? — Ecco che cosa,
amiche mie, mi spinge a morte. Oh, ch’io
mai non sia còlta a svergognar lo sposo,
né del mio grembo i figli. Oh, ch’essi vivano
liberi, e franca alzar la voce possano,
grazie al buon nome della madre, nella
celebre Atene: poiché servo è un uomo,