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IPPOLITO 199


E se tali furono — e difficilmente sapremmo immaginarli diversi — i motivi d’ispirazione d’Euripide, s’intende che per noi sarebbe molto piú interessante conoscere la sua prima Fedra, e non quella che possediamo, ridotta un po’ secondo l’altrui volontà (in arte non c’è di peggio).

Ma non credo riesca impossibile formarcene un idea. Abbiamo già accennato alle somiglianze di situazioni che intercedono fra l’Ippolito portator di corona e la Fedra di Seneca. Ma nel complesso, l’opera del tragediografo latino rassomigliava di piú, evidentemente, al primo Ippolito, che, a sua volta, dové dare piú d’un colore al secondo. Il confronto coi frammenti di Euripide e con le testimonianze degli antichi ce ne dà certezza. Io voglio accennare ad un solo motivo, che però credo capitale.

Nell’Ippolito portator di corona, in un certo momento del suo dialogo con la nutrice, Fedra esclama:

Di quale amore ardesti, o madre misera!

In questa tragedia il tèma rimane appena accennato; ma non dové essere cosí nell’Ippolito velato. Di quelle creature bellissime, solari e nefaste, Pasifae, la figlia del sole, che, trascinata dalla folle furia dei sensi, discendeva sotto il livello umano, turpemente imbestiandosi, era il simbolo piú pauroso e luculento; ed era madre di Fedra. Una suggestione cosí profonda non poteva sfuggire al sensibilissimo Euripide. Ed è quasi matematicamente sicuro che il tema di Pasifae dove aver una gran parte, dove dominare nel primo Ippolito.

E dòmina nella Fedra di Seneca. Dice la nutrice (174):