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Le creature femminili che appaiono come esponenti e simboli di questo cieco istinto, come vissero in tutte le epoche, cosí sono, per fortuna, eccezionali, e poche. Ma c’è un momento della storia di Grecia — il mito, è essenzialmente storia — in cui sembrano moltiplicarsi paurosamente, far gruppo, divenir legge. È il momento piú fiero degli Achei, quando questi forti e crudeli guerrieri, rovesciata la piú pacifica dominazione egea, dalla piccola Creta e da ogni roccaforte della penisola greca, dettano legge al Mediterraneo. E quanto essi valorosi ed efferati, tanto le loro donne belle e lascive: Elena, Clitemnestra, Antèa, Stenebèa, Egialèa, Medea, Pasifae. Belle tutte, di bellezza quasi divina; ma incapaci di porre freno alle loro passioni. La società umana, oramai da secoli, aveva posto agli istinti il freno delle leggi; ma attraverso queste grandi figure di donne sembra scatenarsi una gran ribellione delle forze primordiali insofferenti di ceppi. E uccidono i fratelli, i padri, i mariti; per avere libertà ai loro amori; ma anche per la potenza misteriosa dell’istinto, che vuole confusa con la strage l’opera della generazione.

Queste figure di donne, che erano insieme Dee e fiere, travolte dalla passione d’amore come festuche dal turbine, si imponevano alla fantasia d’Euripide, l’ossessionavano, come Clitennestra aveva già ossessionato il vecchio Eschilo. Scorrendo i titoli delle sue tragedie perdute, troviamo quasi intera la collana delle grandi peccatrici, a cominciar da Pasifae, che s’era data ad una fiera. Di figure integre noi non possediamo se non Medea, che gli riuscí fatta senza attenuazioni né veli; e Fedra, che però nel dramma che possediamo è attenuata, travisata.