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290 | EURIPIDE |
Cosí potei vederli, ad uno ad uno,
poi che recata ai duci ebbi la tessera.
E pria con archi e con zagaglie e tiri
di frombole pugnammo, e d’aspri sassi.
E poi che nostro era il vantaggio, a un tratto
Tidèo gridò, col figlio tuo: «Su, Dànai,
prima di rimaner qui maciullati,
non indugiate, su, tutti d’un balzo
contro le porte prorompete, vèliti
e cavalieri, e guidator’ di cocchi».
E come udita ebber la voce, niuno
pigro restò: molti dei loro caddero
col capo insanguinato; e assai dei nostri
piombar veduti avresti, a capo fitto
giú dai muri, e umettar l’arida terra
coi rivoli del sangue. E come un turbine
sulle porte piombò, non un Argivo,
ma un uom d’Arcadia, d’Atalanta il figlio,
e chiedeva, gridando, fuoco e zappe
per rovesciare la città. Ma freno
Periclimèno alle sue furie pose,
figlio del Dio del pelago, che, svèlto
un masso tal ch’empiuto avrebbe un carro,
dal pinnacol d’un merlo, lo scagliò
a lui sul capo, e stritolò la bionda
testa, dell’ossa franse le compagini;
e il viso, poco fa purpureo, tutto
fu bruttato di sangue. Alla sua madre
saettatrice, alla figlia di Mènalo,
vivo non tornerà. Come tuo figlio
vide che questa porta era sicura,
a un’altra corse, ed io gli tenni dietro.