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Questa concezione, a cui molti tuttavia accedono, è, come si vede, diametralmente opposta a quella che io ho derivata dall’esame del lavoro, e anche dagli esperimenti scenici. Ora, poiché entrambe sono, mi pare, lucidamente contrapposte, il lettore portà facilmente, dopo la diretta lettura, decidersi per l’una o per l’altra.

Ma qui vuol essere ancora ricordato, a titolo d’onore, il giudizio di Vittorio Alfieri.

Ecco le sue parole (Vita, epoca IV, cap. 26): «Fin dal ’96, quando stava leggendo, come io dissi, le traduzioni letterali, avendo già letto Omero ed Eschilo e Sofocle e cinque tragedie d’Euripide, giunto finalmente all’Alceste, di cui non aveva mai avuta notizia nessuna, fui sí colpito e intenerito e avvampato dai tanti affetti di quel sublime soggetto, che, dopo averla ben letta, scrissi su un fogliolino, che serbo, le seguenti parole: — Firenze, 18 gennaio 1796. Se io non avessi giurato a me stesso di non piú mai comporre tragedie, la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato e infiammato, che cosí su due piedi mi accingerei caldo caldo a distendere la verseggiatura d’una nuova Alceste, in cui mi prevarrei di tutto il buono del greco, accrescendolo se sapessi, e scarterei il risibile, che non è poco nel testo — . E proseguii tutte l’altre d’Euripide, di cui, non piú che le precedenti, nessuna mi destò quasi che niuno affetto».

Dunque, anche l’Alfieri rimane offeso dalle parti comiche; e non poteva essere diversamente, date le condizioni di cultura ellenica dei tempi, e la sua propria, che in quell’anno era ancora assai primordiale, e il suo temperamento, non ancora modificato dagli ulteriori accaniti studii di greco — le commedie erano di là da venire — . Ma, ad onta di tutti questi ostacoli, egli pronunciava e poi confermava e accentuava in ognuno dei suoi frequenti ritorni al dramma prediletto, un giudizio che