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ALCESTI 113

oltre un decennio, suffraga, se ve ne fosse bisogno, questa verità intuitiva1.

E allora, dileguano le mille aberrazioni e fantasticherie escogitate e scritte, dall’antichità sino ai dí nostri, intorno a questo capolavoro. E gioverebbe da un lato, per esse, come per tutti gl’ibridi prodotti della teratologia filologica, non piú riferirle, per non perpetuarle di libro in libro. Ma ai tempi che corrono, tale agnosticismo potrebbe essere interpretato come timore di affrontarne la gravità. Ne tolleri dunque, il lettore paziente, un brevissimo accenno.

Esiste un dato di fatto. Il secondo argomento dell’Alcesti, conservato nel codice vaticano 909, c’informa che il dramma occupava il quarto posto d’una tetralogia, dopo Le Cretesi, l’Alcmeóne a Psòfide, e il Tèlefo: il posto dunque, riserbato, per tradizione canonica, al dramma satiresco.

Troppo naturale, allora, che nelle menti razionalistiche e consequenziarie dei filologi sorgesse imperativo il dovere di trovare nel contenuto del dramma il motivo della collocazione.

E già l’autore stesso dell’argomento osservava che la conclusione era un po’ troppo comica2. E le variazioni su questo tèma furono innumerabili. E Voltaire, per citare il nome piú illustre, nel suo dizionario filosofico (Anciens et modernes), osservava che una scena come quella tra Ercole e il servo, presso i Francesi non si sarebbe tollerata neppure alla fiera: che sarà stato vero; e dimostra di che prosuntuosa ottusaggine fosse foderato il buon gusto, sedicente classico, della Francia

Euripide - Tragedie, II - 8
  1. L’Alcesti fu rappresentato, sotto la mia direzione, a Milano (1913), a Padova, a Vicenza, a Verona, a Trento, a Pompei (1927).
  2. Τὸ δὲ δρᾶμα κωμικωτέραν ἔχει τὴν καταστροφήν. Forse vuol dire semplicemente che la conclusione non era tragica. Ad ogni modo, il fatto era di poco rilievo. Anche altri drammi di Euripide (Jone, Ifigenia in Tauride), per non contare il Filottete di Sofocle, non hanno conclusione tragica.