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VIII EURIPIDE

esaltare per un mondo di credenti, con le statue, coi quadri, coi monumenti, il divino poema di Cristo.

E quel che si dice di Eschilo, si può, presso a poco, ripetere per Sofocle. Buona parte della sua vita, è vero, si svolge parallela a quella di Euripide. Ma egli nasce artista tradizionale; e nella sicurezza del suo genio trova la forza di resistere al tramutar di condizioni che tanto influí sull’opera di Euripide.

Ché Euripide si trovò in condizioni differenti e quasi opposte a quelle in cui si trovò Eschilo. Quando egli scese nell’agone dell’arte (con Le Pelíadi, 455), Eschilo, che toccava oramai i settant’anni, aveva creata gran parte della sua opera titanica, certo tutta l’opera sopravvissuta (l’Orestea, che sembra l’opera più moderna, è del 458); ed anche Sofocle, già piú che quarantenne, aveva composti molti dei suoi drammi.

Cosí, il prato sacro alle Muse era stato in gran parte falciato. Un poeta di genio non poteva contentarsi dei rimasugli. Eschilo, come dice lo stesso Aristofane, e in un contesto in cui pure esalta lo spirito di tradizione, disdegnò muovere sulle orme di Frinico. Sofocle pose ogni studio a creare una drammaturgia in qualche modo opposita a quella di Eschilo. Non poteva Euripide, artista anch’egli di sommo genio, contentarsi di battere vie tanto aperte e consuete.

E un altro fatto, anche piú grave, lo spingeva a tentar cose nuove: ed era il mutamento rapido e profondo avvenuto negli spiriti degli Ateniesi. Non esporrò qui la millesima volta quel singolare fenomeno, che d’altronde si trova descritto in tutte le storie politiche, letterarie o filosofiche d’Atene. Basti che fra le sue principali conseguenze fu anche l’essenziale crollo della fede tradizionale. Sicché una esposizione del mito ortodossa ed obiettiva rischiava di non trovar piú troppo credito.

Ora, si ha un bel dire che un vero artista deve fare astrazione dalle condizioni dei suoi tempi. In realtà, un atteggia-