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PREFAZIONE LXVII

line, il ricettacolo amaro di tòssico: accanto al pomo ambrosio, la bacca gonfia di morte.

Ma il parassita non prevale. Pur così composita, l’opera cresce; e gareggia, per mole e per magnificenza, con quella dei due grandi predecessori.

E noi non facciamo troppe meraviglie per la fecondità di Eschilo e di Sofocle. Posti al cimento di rappresentare, nella materia dell’arte loro, tutto un mondo a cui credevano, essi e i loro ascoltatori, li vediamo, assidui e tranquilli, compiere, di giorno in giorno, la loro opera, dall’alba al vespro, come il «grande artiere» descritto dal Carducci, senza che il tarlo del dubbio venga a indebolire la loro energia di validi artieri.

Ma Euripide, no. Vediamo anche lui chino da mane a sera al suo duro travaglio. Con la stessa tenacia degli altri. Con la stessa assiduità. Con lo stesso scrupolo. Ma senza la fede che suole essere l’ineliminabile viatico di ogni opera di lungo respiro. Non crede ai miti che narra, non crede agli eroi in cui deve infondere un’anima, non crede ai Numi di cui deve esaltare la potenza, non crede ai suoi contemporanei, a cui deve offrir la sua opera. Non crede a nulla; ed opera come se credesse a tutto.

Questa è, alla fine del lungo periodo intellettuale ed artistico che va da Omero a Sofocle, la posizione d’Euripide. Tragica e moderna.

Spenti od estenuati son tutti gl’impulsi che già avevano alimentata l’arte: la religione, lo spirito etico, lo spirito civico. E adesso l’arte, come il cigno canoro d’un mito favoloso, immerge il rostro nel proprio seno, e si nutre del proprio sangue e del proprio ardore.

E il suo carattere muta profondamente. Non è più la serenatrice, che ricomponga in armonia le corde scomposte dell’anima umana. La fine d’una tragedia d’Euripide non riad-