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LX EURIPIDE

dirittura implicita, potevamo già trovarla in altri drammi di Euripide.

Ricordiamo, nell’Alcesti, la pittura d’Apelle che pastura le greggi d'Admeto. È sui tramiti delle alpi, guida gli armenti col sufolo. Ma, anche, tocca la cetra, e canta; e a quel suono accorrono le linci maculate, i fulvi leoni, il cerbiatto versicolore. Accorrono, e danzano, ebbri dei cantici. C'è il ricordo d’Orfeo; e c’è il presentimento dei misteri dionisiaci.

E le immagini della vita dionisiaca sempre aleggiano dinanzi alla fantasia del poeta, qualora il suo pensiero sia richiamato alle selve, ai monti, alle spelonche, ai misterii delle notti alpestri. Come un fuoco fatuo, questo spirito serpeggia un po’ dappertutto, ai vertici lirici dell’opera d’Euripide.

Sarà, nell’Ippolito, il ricordo

                    della madre di Bromio, a cui la folgore
                    cinta di fiamma fu nuzïal talamo;

saranno le visioni di caccia che affannano la febbre insonne di Fedra:

                    Conducetemi al monte: alla selva
                    voglio andar, sotto i pini, ove, in traccia
                    di fiere, le cagne si lanciano
                    a ghermir maculati cerbiatti;

saranno, nella pàrodos de Le Fenicie, la scintillante duplice vetta Fedríade, e la vigna che germina ogni dí dalla gemma il pingue grappolo, e le aeree specole dei Numi, bianche di nevi eterne; e la pittura, di mirabile evidenza, della nascita di Diòniso:

                    Lo diede a luce Sèmele;
                    e al Nume, ancora pargolo,