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LVIII EURIPIDE

zione, superflua, se pure non estranea, bensí obbligato sviluppo di germi poetici che solamente nella musica e nella danza potevano trovare la loro legittima e piena espressione. Del resto, questo dramma, come è una palese e forse ostentata palinodia etica, cosí è un pieno e cordiale ritorno alle forme piú antiche dell’arte. Non intreccio, non sofismi, non esitazioni. Il mito è accettato ed esposto nella sua integrità, e la sua santità sostenuta. Piú che ritorno all’antico, Le Baccanti sembrano ritorno agli incunaboli. In certo senso sembrano preeschilee. Sembrano uno degli antichi misteri da cui ebbe origine la tragedia.

Cosí, per quanto sia limitato il numero delle tragedie sopravvissute, ed ipotetico il nostro grafico cronologico, vediamo delinearsi abbastanza sicura una linea di svolgimento.

In un primo periodo, dalla Medea, su per giú, alle Troadi, Euripide rimane sulla posizione del dramma comune, per noi rappresentato piú che altro dall’attività centrale di Sofocle (Antigone 442, Edipo 430), ma già con qualche slancio verso la primitiva linearità eschilea.

Dal 414 al 408, circa, c’è il periodo della rivoluzione romantica, con la quale la tragedia diviene un po’ dramma borghese, un po’ melodramma.

Nell’ultimo periodo (406-404) v’ha un ritorno al vecchio tipo tradizionale, tentandosi ne Le Fenicie, e, piú nella Ifigenia in Tauride, una combinazione coi nuovi acquisti della drammaturgia romantica.

Nell’ultimo dramma, Le Baccanti, non c’è né combinazione né compromesso. C’è la vecchia tragedia che assorbe quanto di buono s’era acquistato attraverso i molti tentativi e, senza rinunciare alla sua semplicità, anzi esagerandola, ac-