Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
L | EURIPIDE |
Ora, come si vede anche da questi pochi esempii, qui tutto è molto voluto. Non c’è la spontanea intuizione del poeta, che parla, sí, per immagini, ma solo perché intuisce che queste sono il tramite piú adatto per far passare le creature della sua fantasia dal proprio spirito a quello degli uditori. Qui c’è l’artista riflessivo e cosciente, che ai fini della propria arte deduce, da un’arte affine, e pur conosciuta, tutti i possibili effetti.
E qualche volta, l’uso diviene abuso, il compiacimento sfoggio. «Abbi compassione di me — dice Ecuba ad Agamennone — , e, a guisa di pittore, mettiti da lontano, e considera quante sciagure mi premono». Tale ostentazione d’una conoscenza tecnica, del resto elementarissima, che, cioè, per ben giudicare l’insieme d’un quadro, bisogna guardarlo da una certa distanza, non aggiunge proprio nulla, e non cospira ai fini dell’arte. Cosí, poco aggiungono, salvo casi eccezionali (per esempio le descrizioni, nello Ione, delle sculture dei frontoni del tempio), le pitture d’opere d’arte di cui pure il poeta sovente si compiace, come, per esempio, quella nell’Elettra dello scudo d’Achille, che serve proprio da riempitivo. E meno, anche, i generici richiami a pitture, che anche ricorrono abbastanza frequenti. «Non so — dice Ippolito — che cosa sia amore, se non per sentita dire, e per averne viste le pitture». — «Atena — dice Ione — die’ alle figlie di Cècrope il pargoletto, come si vede nelle pitture». «Mai — dice Ecuba — non sono entrata in una nave; ma ne ho viste dipinte». (Dove, fra parentesi, pare strano che la regina d’un paese essenzialmente marinaio e ricco di una splendida flotta non avesse mai vedute navi).
Nulla, dicemmo, aggiungono queste allusioni a pitture o pitture di pitture. E in esse ravvisiamo un primo momento dell’infatuamento un po’ dilettantesco, che imperversò poi nel momento alessandrino, dove la fredda e accurata descrizione, con