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XLIV EURIPIDE

poeta li concepisce un po’ come creature sovrumane, li vede fra le nubi, o, addirittura, fra le stelle.

                    O collilunghe aligere,
                    compagne al corso delle aeree nuvole,
                    volate fra le Plèiadi,
                    sotto il notturno scintillar d’Oríone.

Non di rado queste invocazioni divengono strane e fatue. Ad un remo, per esempio (nell’Elena: vedi oltre); o ad una granata (nello Ione: vedi introduzione al dramma). E dimostrano quanto scarsa fosse la fede del poeta, che si serviva dell’atteggiamento, con libertà quasi irriverente: come se in un vaso sacro mescesse il liquore della frivola orgia.

Ma il liquore era squisito ed inebriante. Ché invocazioni, voti, erano in fondo, pretesti a dipingere immagini. Cómpito d’artista: cómpito palesemente prediletto da Euripide.

Cosí, l’invocazione al remo fenicio (Elena), dà opportunità a descrivere il

                                                     remeggio,
                    padre ai flutti che suscita, che il numero
                    segna alle danze che i delfini intrecciano,
                    quando, placate l’aure,
                    sta senza vento il pelago.

La rievocazione della caduta d’Ilio è pretesto, nell’Ecuba, ad una pittura di genere, assai graziosa, sebbene meno intonata alla solennità tragica:

                    Io componea fra i vincoli
                    delle bende i miei riccioli,