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XLII EURIPIDE


C’è la protasi:

                    Io dell’eroe — chi del Croníde vuole
                    chiamarlo, e chi d’Anfitrïone prole —
                    che fra gli estinti scese
                    nel buio Averno, vo’ cantar le imprese.

E poi la specificata narrazione.

Insomma, il poemetto, entrando nella compagine d’un’altra opera d’arte, d’altro carattere, non ha perduto certe caratteristiche che sembravano strettamente connesse con la sua esistenza indipendente.

Segno anche questo, se pur ce ne fosse bisogno, che l’evocazione è divenuta fine a sé stessa, e che la tendenza di queste rievocazioni, etica e religiosa in Eschilo, s’è mutata in tendenza puramente estetica: rappresentare.

Se saggiamo con l'analisi la parte piú propriamente lirica, riscontriamo una gran monotonia d’atteggiamenti.

Si possono, in fondo, ridurre a tre: invocazioni o preghiere, rievocazioni, voti.

Il voto era anche motivo lirico frequente in Eschilo. Ma quanto differente, quanto poco eschileo in Euripide! I coreuti dei suoi drammi, impigliati nell’orrore delle vicende tragiche, per lo piú si augurano di trovarsi altrove, in un luogo indeterminato (Ippolito 252):

                    Deh, fossi in antri eccelsi, inaccessibili!;

oppure determinato. E fra i determinati, naturalmente, Atene gode una indiscutibile preferenza.