io gitto, che il gorgo
castalïo versa,
ne spargo la rorida
rugiada, io che sorgo
dal talamo puro.
Deh, ch’io mai non cessi
dal culto di Febo; e, se pure
desister dovessi,
m’arridano fauste venture.
Come colpito da un rumore improvviso, alza gli occhi verso il cielo.
Ahi, ahi!
Già vengon gli aligeri,
del Parnaso i giacigli abbandonano.
Volate lontano, io ve l’ordino,
dai recinti e dall’auree case.
Dà di mano all’arco e alle frecce.
Io te colpirò con le frecce,
araldo di Giove, che vinci
col rostro la forza
di tutti gli alati.
Un altro, a quest’ara, ecco, remiga:
un cigno. Non volgi
altrove il purpureo pie’?
Neppure la cetra sonora,
compagna di Febo,
potrebbe sottrarti dall’arco.
Le penne distogli,
va’ sopra lo stagno di Delo.
Di sangue, se tu non m’ascolti,
saranno gli armonici
tuoi canti bagnati.