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XX EURIPIDE


Invano cercheremmo d’intrecciare coi suoi eroi una corona così fulgida come quella delle sue eroine del bene. E anche le tristi e le delinquenti, i mostri, sono assai meno odiose dei mostri mascolini.

Perché della delinquenza femminile Euripide ha una visione grande, tragica, apocalittica. Dietro i superficiali rabeschi di una misoginia di maniera, c’è il sentimento, assai profondo e moderno, di un eterno femminino che rispecchia, in modo assai diretto e palese, e quasi si identifica con la grande forza della natura. Che nell’impeto creativo sembra accoppiare il delirio della fecondazione col delirio della strage; e sembra produrre indifferentemente la rosa e la cicuta, la colomba e il viscido serpe. Indifferentemente, tragicamente, orridamente; ma non mai vilmente, non mai subdolamente. Questo sentiva Euripide: a questa intuizione profonda si deve il fatto che egli figurò sulle scene tante donne travolte dal delirio d’amore; e non già ad alcuno dei bassi impulsi che gl’imputavano i suoi nemici.

E la viltà, la menzogna, la frode al sentimento, sembrano piuttosto, nel suo teatro, retaggio degli uomini. E come la natura, nel suo apparente disordine, mira, palesemente, ad una elevazione perenne, dal fango alla quintessenza spirituale, così il mondo femminile d’Euripide si corona nelle figure di Ifigenia, di Macaria, d’Alcesti, nelle quali brilla in tutto il suo fulgore l’eterno femminino, con raggi di altezza etica che non troviamo in veruna figura maschile, e che a momenti fanno presentire l’idealità cristiana e cattolica, quale s’incarna in Maria.

Per chi conosca bene il teatro euripideo, e non si lasci illudere dalle apparenze, a ciò si riduce, in effetto, la famosa misoginia d’Euripide.