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della commozione, rievoca e narra la sua sciagura. Il pedagogo immalinconisce un istante, e poi torna súbito ai suoi decisi consigli. E, visto che anche Apollo ha mancato contro la sua padrona, la consiglia a bruciare il suo santuario. E perché Creusa si pèrita, insiste che compia almeno le altre vendette.

Aio. — Brucia il venerando santuario di Febo.

Creusa. — Ne ho paura: di malanni ne ho già abbastanza.

Aio. — Ardisci allora le cose possibili: ammazza il tuo sposo.

Creusa. — Rispetto il talamo di quando era buono.

Aio. — Almeno ammazza il giovine spuntato or ora.

E Creusa si risolve ad uccidere il giovinetto. «Dove?» chiede il vecchio. «In Atene, quando entrerà nella mia casa». Ma l’implacabile aio non è ancor soddisfatto. «In Atene, anche se non fossi tu ad ucciderlo, i sospetti cadrebbero su te. Bisogna spacciarlo qui».

Ora, si ha un bel ripetere che qui parla il servo fedele, geloso piú dei suoi stessi padroni dell’integrità della razza: quando vediamo questo vecchiotto mezzo cieco e mezzo invalido proporre un piano cosí ampio di vendette, e poi, dinanzi alle repulse di Creusa, rinunciare a malincuore ad una parte del programma sanguinario, e pregare che almeno si dia corso alle altre due, e, privato anche della seconda, aggrapparsi disperatamente all’ultima: invece di sentirci corsi dal brivido tragico, pensiamo a quel famoso personaggio del Picwicks Club, il quale, chiamato testimonio in un duello, si adopera con tutto l’impegno perché lo scontro riesca sanguinoso e fatale.

Facile è rispondere che questi personaggi grotteschi non erano una novità nel teatro di Euripide. Facile cercare di diminuirne il significato, mettendoli a conto della famosa ironia