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more? — E l’Ippolito? (fu rappresentato nel 428; e anteriore era l'Ippolito velato, nel quale la passione di Fedra era dipinta con colori assai piú crudi, assai piú romanzeschi). — L’amante abbandonata? — E Medea (431)? — La tenerezza coniugale, materna, filiale? — E Alcesti (438)? E Le Troiane? E L’Edipo a Colono? — I servi fedeli? — E quello dell’Alcesti, che per amore alla padrona spenta si abbaruffa addirittura con Ercole? — La sentimentalità appassionata e melanconica? E non è forse carattere generico e saliente di tutta la drammaturgia d’Euripide?

E, senza dubbio, nel complesso di quei rilievi, c’è una gran parte di vero. Ma non tutto il vero. E si può forse muovere ancor qualche passo, se non per raggiungerlo, almeno per avvicinarglisi.

Le vicende, abbiamo detto, della mitologia greca presentavano già essenziali tutti i caratteri del romanzesco. Però, per la credenza e pel sentimento degli Elleni, non erano favole: erano storia. Immutabili, quindi, intangibili, e non soggette all’arbitrio dei poeti, i quali potevano abbellirle con l’arte loro, ma dovevano rispettarne la configurazione e l’essenza. E storia è, per definizione, antitesi di romanzo.

Euripide, invece, riprendendo la tradizione del vecchio Stesicoro (che con le sue alterazioni di miti impressionò molto, perché era il primo, ma probabilmente fu molto sobrio), modificò, a suo modo, gli eventi della tradizione, o li trasformò addirittura. E la libera invenzione è del romanzesco condizione non sufficiente, ma certo necessaria.

E c’è altro. Secondo l’opinione comune, foggiata sopra la primitiva filosofia della storia, tutti gli eventi umani erano seguiti in una data maniera per volere dei Numi, o, meglio, di quella forza divina misteriosa, e superiore anche ai Numi, che si chiamava Fato. Questo concetto, tutti lo sanno, aveva