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XVIII EURIPIDE

quasi sovrumana. Si pensa a qualche grande figura eschilea, al Dario de I Persiani, per esempio, quando appare alle reiterate preghiere dei suoi sudditi.

Ed ecco Evadne che si precipita sul rogo di Capanèo, proclamando la santità del vincolo coniugale; e Alcesti che sacrifica la giovine vita per salvare quella dello sposo; e, ultima e fulgidissima gemma di questa corona, Ifigenia, quasi immersa, tuttora, nel soave limbo della vita infantile, che vede con occhio limpido la viltà del padre che la manda al sacrificio, e che, tuttavia, per un’idea superiore di nobiltà, di dignità, di pudore, soverchiando l’animo di quanti la circondano, e il proprio destino, muove intrepida alla morte.

Ho già detto che il concetto d’eroismo non si identifica e non si esaurisce nel concetto del bene. Anche l’autore di gesta efferate, può attingere la sfera dell’eroismo, purché non siano meschini i suoi sensi. Eroina è pur sempre l’orrida Clitemnestra di Eschilo. Ed eroine sono, nel teatro d’Euripide, Medea e Fedra.

Fuori d’ogni umanità, la prima, quasi una fiera. Eppure, il suo carattere acquista una certa grandezza, nel confronto con Giasone. Mentre questi sottilizza, tergiversa, ricorre a cavilli e pretesti, cerca di dorare la sua perfidia e non ha neanche il coraggio del male che opera, lascia che i figli vadano a un esilio quasi peggiore della morte, e poi, morti, li piange: insomma, è un tristo, un debole e un irresoluto: Medea è tutta d’un pezzo, non mentisce a sé stessa, va diritto al suo scopo, infrenabile e fatale come una forza naturale. Ha le piene stimmate del carattere tragico, quale almeno appare nella concezione originaria della grande tragedia greca. Sua sorella è, in qualche modo, Fedra: massime come fu concepita dal poeta nel suo primo dramma sull’argomento, nell’Ippolito velato, ora perduto, ma di cui si può abbastanza sicuramente indovinare il contenuto (vedi prefazione al dramma).