messo
Poi che i soggiorni del tebano suolo
abbandonammo, dietro noi lasciate
le fluenti dell’Àsopo, alle rupi
del Citerone ci affrettiam, Pentèo,
io, che il mio re seguivo, e lo straniero
che a contemplare l’orge eraci guida.
E pria posammo in un vallone erboso,
muti, smorzando il battito dei piedi,
per vedere non visti. In una gola
cinta di rupi, fra spicciar di linfe,
sotto l’ombra dei pini, eran le Mènadi.
Sedeano, ad opre graziose intente.
Cingevan queste nuove chiome d’ellera
ad un tirso sfrondato; e allegre quelle,
come puledre libere dal giogo,
intonavano a gara un carme bacchico.
Pentèo, che poco distinguea la turba
delle femmine, disse: «O forestiere,
di dove siamo non veggo io le Mènadi:
se un colle ascendo, od un eccelso abete,
meglio vedrò le loro opere turpi».
E lo straniero compiere un prodigio
allor vid’io: ghermita d’un abete
la somma vetta che toccava il cielo,
la trasse giú giú giú, sino alla terra
negra, simile a un arco, o ad una curva
che volubil compasso in giro incida.
Cosí curvò l’alpestre albero al suolo
lo stranier, non umana opra compiendo.
E, posato Pentèo fra i rami, il tronco,
pian piano, senza abbandonarlo a un tratto,