Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) I.djvu/14


PREFAZIONE XIII

tragedia greca si è data eccessiva importanza al «Fato», prospettandolo quasi come l’unico elemento caratteristico (credo d’essere stato il primo a dirlo; ma poi, chi sa?); ma è altresí vero che, tanto in Eschilo quanto in Euripide, gli eroi appaiono sempre avvinti nei lacci d’una legge fatale, che punisce via via nei discendenti i delitti dei padri. Dice Eteocle ne I Sette a Tebe:

                    Poi che gli eventi incalza un Dio, rapito
                    dai venti sia di Laio il seme tutto,
                    odio di Febo, sul fatal Cocíto.

Dice:

                    Sta senza pianto, con aridi sguardi,
                    del padre mio l’Erinni, a me davanti:
                    «Meglio — dice — morir presto, che tardi».

Cosí, la loro responsabilità morale riesce attenuata. E, d’altronde, quali che siano le loro vicende, essi non mostrano mai, né in pensieri, né in parole, né in opere, alcunché di basso, né di volgare, né di mediocre. Travolti in orride disumane vicende, spinti all’infamia, al delitto, all’incesto, mostrano sempre, e nel bene e nel male, un animo immune da debolezze, non pronunciano un motto che sembri indegno d’un re. La regalità è il loro principale attributo: quella che ispira le ultime parole di Antigone moritura:

                    Vedete, o Signori di Tebe,
                    che debbo soffrir, da quali uomini,
                    perché pïetosa volli essere,
                    io, sola superstite
                    del sangue dei re.