e sanguinanti penzolar dai rami.
E i tori vïolenti, avvezzi al rabido
cozzo dei corni, al suol giacean fiaccati,
tratti giú dalle mani innumerevoli
delle fanciulle; e in men che tu le palpebre,
o re, non serri, fatti erano in pezzi.
Corser poi come uccelli alzati a volo
pei bassi campi che lunghesso l’Àsopo
maturano ai Tebani il pingue grappolo.
E in Isia, e in Eritría, che sotto il giogo
del Citerone sorgono, piombando
come nemiche, tutto a sacco posero.
Dalle case rapiano i pargoletti;
e quanto si ponean sopra le spalle,
o bronzo o ferro, senza alcun legame
vi adería, né cadea sul negro suolo.
E portavano fuoco sopra i riccioli,
né le bruciava. — I terrazzani corsero
furïosi sull’orme delle Mènadi;
e fu, signore, un orrido spettacolo:
ché di lor sangue tingere le cuspidi
non potevano questi; e quelle, i tirsi
scagliando, li ferivan, li fugavano,
esse donne: ma un Dio le soccorreva.
Poscia tornâr novellamente ai fonti
che per esse sgorgar faceva il Nume,
e detersero il sangue; e da lor gote
lo stillante sudor lambiano i serpi.
Questo Dèmone dunque accogli, o re,
qual ch’egli sia, nella città: ché sommo
è in tutto; ed ai mortali, a quel che dicono,
donò la vite che sopisce il duolo.