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PREFAZIONE | IX |
mento di assoluta intransigenza è piú da fanatico che da artista. L’artista non può isolarsi dalla vita. La vita reale, coi suoi mille contatti, induce nell’artista e nell’opera sua, sia pure contro la sua consapevolezza, sia pure contro la sua volontà, preziose linfe di vitalità e di vivacità. E quest’opera deve essere dunque un compromesso fra il mondo ideale, che vuole essere concepito sotto specie d’eternità, pena la caducità, e le effettive contingenze del momento in cui egli vive, pena l’esilio e l’oblio.
E cosí Euripide, accingendosi alla bisogna drammatica, non si figurò di parlare ad un pubblico ipotetico, simile a quello che applaudiva i drammi del vecchio Eschilo; bensí volse ogni cura a destare l’interesse dei suoi contemporanei, che conoscevano e leggevano Anassagora, Diogene d’Apollonia, Protagora, e, via via, tanti altri filosofi e sofisti innovatori e distruttori del tradizionale pensiero etico ed estetico.
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Oramai, la posizione generale degli spiriti piú illuminati, dinanzi alla religione, al mito, alle leggende, era scettica e critica. Da scettico e da critico esaminò Euripide la materia del mito. E sotto questo angolo, visuale essa gli apparve tutta profondamente mutata.
Mutati i Numi, che in tutto il suo teatro fanno davvero una magra figura.
Vediamone uno che pure è fra i piú simpatici, l’Apollo dell’Alcesti. Quanto non appare disceso dal livello della divinità! Dalle Parche non può ottenere per il re prediletto altro che un commutamento di vittima; e dinanzi a Tànato è impotente. E poco sarebbe, se Tànato non fosse poi vinto da un mortale, Ercole; sicché gli spettatori facilmente istituiscono un confronto che non torna a onore del Dio. E per giunta,