non calcitrare al talamo di Giove:
anzi esci al pingue pascolo di Lerna,
alle greggi del padre ed ai presepî,
ché requie abbia da te l’occhio divino».
A tali sogni in preda ero ogni notte,
misera me, sin che narrare al padre
osai questi notturni incubi. Ed egli
molti indovini a Pito ed a Dodona
inviò, per saper che cosa ei debba
o dire o far per compiacere i Numi.
Tornavan quelli, e riferiano oracoli
confusi, ambigui, oscuramente espressi.
Chiaro un responso giunse infine ad Inaco:
che senz’ambage gl’imponeva l’ordine
che dalla casa via, via dalla patria
mi discacciasse, per gli estremi limiti
della terra, a vagar come una libera
vittima, se non vuol che ardente il folgore
piombi di Giove, e la sua stirpe stermini.
Da questi indotto oracoli di Febo,
via dalla casa mi scacciò, mi escluse,
malgrado suo, malgrado mio. Ma il freno
di Giove a ciò lo costringeva a forza.
E la mia forma e la mia mente súbito
si sconvolsero, e quale or mi vedete,
irta di corna il capo, e dall’acuto
pungiglio spinta d’un assillo, ai rivi
dolci di Cernèa giunsi, alla fontana
di Lerna, in folli balzi io mi lanciai.
E tutto pien di zelo Argo seguiami.