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154 ESCHILO


Notevolissima è la figura di Eteocle. È il primo vero carattere che incontriamo, in ordine cronologico, nel sopravvissuto teatro di Eschilo. Non indugio in una analisi. È un carattere trasparente. La fermezza, la saldezza dell’animo, il coraggio addoppiato di sarcasmo, risaltano evidenti alla lettura. Rilevo un sol tratto. Quando le fanciulle del coro lo dissuadono dal duello con Polinice, egli esclama:

Poi che gli eventi incalza un Dio, rapito
dai venti sia di Laio il seme tutto,
odio di Febo, sul fatal Cocito.

È l’amara volutta dell’uomo, che, percosso da ogni parte dalle sciagure, quasi gode nel rendere il suo strazio piú colmo e perfetto. È, mi pare, tócco di finissima psicologia. Questa è la vera, l’unica disposizione spirituale d’un uomo d’alti sensi, colpito fin dalla nascita da una orrenda inmedicabile sciagura. È come una atmosfera nella quale è perennemente immerso e respira ogni altro suo sentimento. Non bisogna dimenticarlo mai, per intendere nel loro giusto valore ogni atto ed ogni parola d’Eteocle.

La mancanza di vera azione è compensata in questo dramma dalla potenza del quadro scenico. Non dico del materiale allestimento, che non sappiamo con precisione quale fosse ma della visione suscitata dalla magica poesia di Eschilo. La rocca di Tebe coi simulacri dei suoi Numi, con le fanciulle sempre imploranti, coi racconti paurosi degli araldi, ci sembra quasi uno schermo, dietro il quale mugghia, contro il quale si avventa, facendolo traballare,