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formare con essi una trilogia. Ma furono, e saranno sempre, sofisticaggini. Fra i due miti e l’episodio storico non intercede verun rapporto. Ed anche ammessi quelli, molto lambiccati, che taluno pensò di poter scavizzolare, immaginando, per esempio, che Finèo predicesse agli Argonauti le future lotte coi Persiani, e Glauco ai suoi interlocutori la battaglia di Platea, questi nessi puramente — e un po’ scioccamente — ideali, non distruggerebbero il fatto che sostanzialmente i tre drammi devono stare ognuno da sè.

Ed anche per conto proprio dové stare il dramma satiresco che chiudeva la trilogia, e che toglieva argomento dal mito di Prometeo: Prometeo portatore del fuoco. Ne rimangono frammenti insignificanti.

I Persiani son dunque un tutto chiuso e perfetto. Unici per questo carattere fra tutti i superstiti drammi di Eschilo, che, come sappiamo, sono frammenti di rispettive trilogie. Ed è circostanza importante. Infatti, la tragedia primitiva, ampliandosi in trilogia, aveva alterato un po’ il proprio carattere, specialmente dal lato della forma. I Persiani sono un modello della integra e schietta forma originaria, sia pure affinata da un’arte piú cosciente.

E troviamo in essi il gran Canto d’ingresso (pàrodos) in ritmo di marcia (anapesti), i tre canti intorno all’ara, e, di una forma sviluppata e tipica, la lamentazione finale. Forte sapore arcaico ha l’invocazione a Dario, che termina con l’apparizione del sovrano defunto (vedi introduzione). E alla tragedia primitiva ci richiamano anche i tre brani in tetrametri trocaici di Atossa e di Dario.

Manca nei Persiani una vera connessione drammatica. Non ci sono infatti situazioni che comportino contrasto