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atto secondo.—sc. iv. 289

D’Auberto, se tu cadi, accelerata
Mira al sepolcro la vecchiaia, e mira
Noi da ciascuno derelitti, oppressi,
Profughi forse, anco dal vil respinti
Cui vergognando un pan chieggiamo.»
Arrigo.                                                            Cessa.
Eloisa.La madre trafugavali. Sotterra
Tosto posela il duol. Niun prende cura
Degli orfanelli più. Timor di giusta
Vendetta auge l’iniquo; ei li persegue,
Ei.... dir nol posso. Oh figli miei!
Arrigo.                                                       Delirio
Spaventoso quest’è.
Eloisa.                                        Salvali.
Arrigo.                                                  E il posso?
Eloisa.Sì, Arrigo, è tempo ancora. Impietosito
Enzo un indugio alla sentenza ottenne.
Fè non mi presti? Oh, ascoltami: ottenuto
Di tutte le tue ostili opre ha l’obblio,
Se la fortezza tu consegni. Scrivi
Al genitor, fa ch’ei le chiavi arrenda.
Arrigo.Donna, tu oltraggi il padre mio. Al delirio
Che t’invade perdono.— In te un istante
Rientra, amica, e t’avvedrai che patto
Inaccettabil ne propongon. Morte
O disonor? E ch’io disonor scelga?
Che a’ figli miei mi serbi, ed al codardo
Padre un giorno rampognino la macchia
Di tradimento che il lor nome sfregi?
No, Eloisa, nol vuoi; di Leoniero
Prole sei non degenere tu sola.
Non d’Enzo il guasto cor, ma dell’estinto
Tuo genitor la irreprensibil vita
Tuoi sensi informi.
Eloisa.                                        Ah, il padre mio strascini
Teco in una ruina! Ei d’Orïente
Tornò.
Arrigo.          Che intendo?