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286 | leoniero da dertona. |
SCENA III.
ELOISA e detto.
Eloisa.Enzo.
Enzo. A oltraggiarmi anco ritorni?
Eloisa. Ferma.
Giunto è all’orecchio mio, ch’appo te accolti
Furono i senatori. Ahimè! il giudicio
Pronunciarono forse?
Enzo. A che del volgo
Ti giovò contra me suscitar l’ire,
Mal consigliata? Temo il volgo io forse?
Io che.... Ma il susurrar de’ temerari
Vieppiù a danno d’Arrigo esacerbati
Ha i senatori, e già cadría la scure,
S’io per tuo amor non sospendeala a stento.
Eloisa.Misera! Enzo, fia ver? Pietà ti prese
Della sorella? Ma che ondeggi? Il guardo
Perchè pur sì funesto? Oh! di speranza
Qual debil raggio mi dái tu?
Enzo. L’estremo.
Ingannarti non posso. Io con Arrigo
Già lunghi parlamenti oggi, ed indarno,
Pria del giudicio tenni. Ingratamente
Ei mia pietà rigetta, ed oblïando
Ch’è sposo e padre, anzi che i vani sogni
Del suo orgoglio immolar, se stesso immola.
Eloisa.L’alto suo cor lo perde.
Enzo. Di te duolmi;
Pur tacertel non vo’. Poca m’avanza
Nel mio zelo fiducia. Ah, se tu.... il cielo
Forse m’ispira.
Eloisa. Spiegati.
Enzo. Lo sposo
Veder tu brami?
Eloisa. Oh, sì!
Enzo. V’assento: m’odi. —