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atto primo.—sc. iii, iv. | 277 |
Nè rampogna obliai, nè umile prego,
Onde a vergogna indurlo, e a generosi
Sensi, e a pietà di me. Per la paterna
Fama il pregai, pel cenere ancor caldo
Di nostra madre che a mie nozze pianse,
E al fratello dicea: «Ben d’Eloisa
Degna è l’alma d’Arrigo; oh! ma d’Arrigo,
Poichè cognato il vuoi, più non t’offenda
La virtù troppa, e sia tra voi concordia.»
Mie supplici querele Enzo irritaro.
Vedere almen lo sposo mio, vederlo
Almen chiedea. Ciò pur negommi; e irato
Alfin da me strappandosi, «Nemico
Èmmi colui! proruppe, e a te l’amarlo
Disdice!» — E queste orribili parole
Proferiv’ei con sì tremenda voce,
Con sì furente sguardo, che speranza
Altra a me non lucendo, il clamor mio
Fermai recare al popolo.
Leoniero. Ah! tua madre
Dunque io veder più non dovea? — T’incuora,
O figlia; un padre oggi racquisti; ed oggi,
Benchè figlio d’Auberto, oggi il tuo sposo
Un padre acquista ei pur.
Popolo. Fuggiamo: è desso!
Il console!
Leoniero. Fermatevi, codardi:
Leoniero è con voi.
SCENA IV.
I precedenti rimangono affollati da una parte della piazza. Una squadra giunge dall' altra: ENZO è alla testa.
Enzo. Credere il deggio?
Ov’è l’illustre genitor? Chi tarda
Gli adorati suoi passi? Enzo tuo figlio
Ti chiama, o Leonier.
Leoniero. Qui un Leoniero