Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/235

230 gismonda da mendrisio

Gabriella.               Oh, non voler, Signore,
Dimenticar che a molti egregi, quella
Dell’onor parve. E tal fulgea alle ciglia
Del generoso figliuol tuo.
Il Conte.                                        L’insegna
Che sventolar facean tai che nemici
Non del monarca erano sol, ma i miei
Più esecrati nemici! e parentela
Col maggior d’essi indi contrarre! Obbrobrio!
Indelebile obbrobrio!
Gabriella.                       Ei dicea: «Inique
Le mire mio non erano, eppur duolmi
Che per me tanto dolorasse il padre,
Ch’io sempre amai.»
Il Conte.                       No, non m’amò! Qual padre
Tenero fu de’figli suoi com’io?
E perché primo a me nascea Ariberto,
Il diletto era del mio cor. L’ingrato
Tutte obliò le soavissim’ore
In che appo me con tanto amor lo crebbi;
Plausi obliò, consigli, e preghi, e pianto —
Il pianto di suo padre! — E quand’io mite,
Pria di scagliar rimproveri e minacce,
Gli dicea stolta di Milan l’impresa
Che a libertà chiamava Italia, Italia
Si discorde e corrotta, ei con superbo
Riso movea le labbra e non parlava;
Ovver del padre a vil tenea, di tutti
Gli avi la sapïenza; e l’arrogante
Pensier nasconder non curava.
Gabriella.                                        Io spesso
L’intesi dir «Parole aspre dal labbro
Con si buon padre mi sfuggian: gli reca
Il mio rimorso.»
Il Conte.                       Gli perdoni il cielo.
Grave fu il suo fallir; ma l’accecava
Sincero zelo di virtù e di patria,
E de’ribelli la splendente audacia