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atto secondo. — sc. i. 225

D’Erman, poich’una volta aperto il core
Ebbe questi ad invidia. Ogni mio torto
Magnificato venne, ogni virtute
Fu chiamata delitto. Un’altra serpe
Velen giunse al veleno. Ah, tu non sai
Qual sia Gismonda! Tu non sai che un tempo....
Ma che vaneggio? Andiam.
Gabriella.                                                       Tu tremi.
Ariberto.                                                                           In guerra
Io non tremava. Ora al paterno tetto
Appressandomi tremo. — Il padre solo
Mi si affacciasse! a sue care ginocchia
Mi prostrerei senza esitar; me reo
Non negherei. D’ingratitudin reo
Quel dì ch’io mi partía sdegnosamente
Chiamando vil l’ossequio suo alle insegne
Del nemico d’Italia: un figlio mai
Vibrar tai detti non dovea, l’insegna
Qual fosse pur, che santa era al suo sguardo!
Egli anco placheríasi: a mie discolpe
Darebbe ascolto, e assai men reo me forse
Trovería poscia. Ma ove seco Ermano
Innanzi mi si pari, ove costui
Vilipendermi ardisca, il furor mio
Chi ratterrà? chi mi darà la forza
D’umilïarmi a piè del padre, in faccia
D’un vil che guardi mia miseria e rida?
Speranza qui traeami: or che alla meta
Son, m’abbandona, e fuggirei. Sì, donna,
Se tu non fossi e questo figlio, a cui
Dritto è immolar l’orgoglio mio, scerrei
Mendico appresentarmi a ogn’altra porta
Anzi che a quella... di mio padre!
Gabriella.                                                                           Ovunque
Ti seguirei, diletto mio infelice.
Ma per amor d’un figlio é dolce cosa
Immolar nostro orgoglio. In quel castello
Signore un giorno ei seder possa! A lui