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atto primo. — sc. ii. 219

Il Conte.                     Ed allorquando il caro
Inganno si disciolse, e uscì l’editto
Dello sterminio?...
Ricciardo.                                    A disperato pianto
Allor diersi le turbe, ed imprecato
Allor s’intese d’Alessandro il nome!
Ma tai v’avea che pur costanti il fero
Evento non credean, che l’aspettato
Miracolo invocavano! A’lor guardi
Cadder le torri e tutti ad uno ad uno
Gli alti palagi e popolani alberghi;
E i deliranti ripeteano: «È un sogno!»
Ermano. A’martelli e alle faci, oh con qual gioja
Stati saran ministri i vincitori!
Ricciardo. Sveve mani non fur.
Il Conte.                                   Lombarde?
Ricciardo.                                                        A queste
Affidò l’opra il sir.
Il Conte.                                    Oh eterno obbrobrio!
Ricciardo.Pensava forse Federigo istesso
Che lombardi guerrieri avrian tant’opra
Supplici ricusato e sopra i vinti
Implorato clemenza: — alle sei parti
Di Milano scagliarsi eccoli invece,
In sei falangi; e la città è sparita.
Il Conte. De’miseri dispersi, oh quai le grida
Esser doveano!
Ricciardo.                               Orribili! favella
D’uom ridirle non puote. Eppure udii
Più d’un di lor, quando Milan fu polve,
Alle mogli e alle vergini che il crine
Si laceravan, susurrar: «Cessate;
Risorgerà; caduti son gli ostelli,
Ma la città è nel popolo, ed è questa
La Milan cui promessa è gloria ancora!»
Il Conte. Non natural, sublime, spaventante
D’orgoglio pertinacia!
Gismonda.                                              A che gli alberghi