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atto quarto. — sc. ii. 189

Roffredo.                                                            Ormai
Troppo, o Arnoldo, t’arroghi.
Arnoldo.A me d’Iginia
Esser donaste il difensor: diritto
Ho di sgombrar le accuse. In lei la colpa
Non si rinvien.
Giano.                         Certa è la colpa: entrambe
Non s’accusàr?
Roffredo.                         Figlia d’Evrardo, narra
Quai della trama circostanze il guelfo
T’appalesasse.
Iginia.                         «Ampio, dicea, drappello
» Formato abbiam tra il popolo; dischiuse
» Fien a’ guelfi le porte, e il Sol dimane
» Vedrà prostrato il ghibellin vessillo.»
Tai sensi espose: e trattenermi a veglia
Fuor del paterno tetto ei mi pregava
Per mia salvezza.
Roffredo.                                   Pari a questi i detti
Son di Roberta. Or dubbio è sol, se all’una
L’altra vietasse il dar prigion costui.
Iginia.Io ’l vietai.
Roberta.                    Chi può crederlo? — Ove prima
Ella ne’ festeggianti orti veduto
Avesse il fuoruscito, io nel seguirla,
Nel respingere lui, mettere un grido
Non potea forse, e cento spade a un lampo
Così avventar sovra il fuggiasco? Ah, troppo
È manifesta la menzogna! — Udite.
Lei due spingon ragioni ad accusarsi:
La maggiore è l’amor tenero e sommo
Che per me nutre: l’altra è la speranza
Ch’ove meco dannata anco ella fosse,
Evrardo (ch’è pur padre) ed a lei grazia,
E a me del pari impetreria.... Vermiglia
Ecco si fa.... Scoverto ho il tuo segreto:
Nol sai? Da lungo a leggerti nel core
Usa son io: non isperar che agli occhi