Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/193

188 iginia d'asti

Sesso, noi saggi, espulsa abbiam: son fatti
Unica gloria nostra i feroci odii
E le calunnie e le perfidie e il sangue:
E intanto a noi d’eroica fè, di santa
Magnanima amistà porgono esempio,
Chi? due donne! E che? stolte! in noi vergogna
Destar pensate? I generosi fatti
Idolo fur de’ rozzi avi, ma fole
Noi le scoprimmo, e scherno hanno o gastigo.
Qual ne attendete guiderdon? La morte.
Null’altro speran! Per null’altro lucro
Di menzogna s’accusano: la morte!
Oh ben appar, che di solinghe mura
Vissute alla innocente ombra, i costumi
Di nostra età non imparar; l’antica
Superstizion della virtù serbaro!
No, alimento a sì ignare alme non sono
D’ire fraterne i partiti esecrandi:
Gli spirti non son questi onde atterrirsi
La repubblica debba. Incaute furo
Se ad onta della legge un breve asilo
Diero a congiunto, ad uom che all’una crebbe
Figlio e all’altra fratel! N’abbian rampogna,
E in ciò lor pena stia.... Commosso io veggio
Alcun di voi: non arrossir, Roffredo;
Vil non è quella lagrima!
Roffredo.                                                   Io ?...
Arnoldo.                                                        Sei padre:
Sullo scanno de’ rei tu miri assisa
Tanta innocenza, e i figli tuoi rammenti.
Guai, se l’armata legge oltre il confine
Varca d’umanità! De’ propri giorni
Chi, un istante, secur? Chi a’ propri figli
D’accusator mancherà mai, che degna
Illecita virtù chiami di morte?
Ahi, l’imminente passo or non si varchi!
Sonvi ed incauti, e traditori; a questi
Morte, e agli incauti pietà deesi.