Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/122


atto terzo.—sc. ii. 117

A rimirar mi stava, e d’Israello
Vedendo l’aste a luccicar, memoria
In me svania che da’ fratelli miei
Espulso io vivo; e palpiti di gioia
Pe’ lor trionfi mi sorgea nel core.
Ester.Padre....
Eleazaro.                         Onde lieta non sei tu? Allo sposo
Forse dicesti?...
Ester.                              Ohimè!
Eleazaro.                                        Speranza, il veggio,
Non mi riman! — Ciò non ti turbi: avvezzo
Sono al dolor. Parlarti alcuna volta,
O guardarti da lunge, a me conforto
Recherà pur non lieve: anco la madre
Un dì, se in lei riede salute alquanto,
A benedirti scenderà.
Ester.                                             Infelici,
Più che non credi, siam. Piegar l’avverso
Cor d’Azaria spero tuttor, ma il crudo
Pontefice t’insidia.
Eleasaro.                              Egli!
Ester.                                        I tuoi passi
Tutti conosce e il tuo ricovro. In altro
Speco lontano uopo è ritrarti, e tosto.
Dal tuo novello asilo, in fra tre notti,
Picciola fiamma innanzi all’alba accendi
Sovr’erta rupe; io noterò quel loco.
Azaria placherò, quindi io medesma
Volerò a te.
Eleazaro.                         No, figlia: a Jefte noto,
Già immolato sarei; nulla ei sa.
Ester.                                                            Dirti
Dunque degg’io ch’a infami patti ei m’offre
i giorni tuoi?
Eleazaro.                         Che?
Ester.                              Di vergogna avvampo.
Sì, per me Jefte d’empio amor delira
Già da gran tempo: e poichè vana ogn’altra