Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/106


atto primo.—sc. iv. 101

Che tu non l’ami: non indarno a spesse
Guerre il Signor lo tragge. Un dì tua destra
Esser libera puote,... e, oh! non ingrata
Fossi tu all’amor mio! quel dì felice
Non penderla da incerte guerre.
Ester.                                                                      Oh cielo!
Jefte.Il più santo de’ regi arse, e il marito
Di Betsabea perì. Fu colpa, è vero;
Ma l'espïaro gli olocausti: e moglie
Del santo re fu Betsabea.
Ester.                                                       Che intendo?
Oh, ben vegg’io, che, a trarli ogni speranza
Forza è ch’io cessi da ogni ossequio, e tutto
Quant’è prorompa il mio ascoso disdegno.
Sì, Jefte, a’ guardi miei tu se’ il più vile,
Il più esecrando infra i mortali: io t’odio
Non tua; più t’odierei, se tua foss’io.
Fida allo sposo, non virtù, ma amore,
Immenso amor mi tien: quanto ei più disia
Da tua melata, finta, empia dolcezza,
Io tanto più quel suo spirto guerriero
Amo; guerriero, ma leal, ma giusto,
Ma incapace di frodi! Ahi, scellerato!
Sì reo delitto meditavi? e cieco
A te Azaria tanto s’affida? Io voglio
D’inganno, io, trarlo.
Jefte.                                             Audace! e di calunnia
Rea tenuta sarai. Trema! inconcussa
È la fama: trema. E a rintuzzarti
Il folle orgoglio, arma io non ho possente?
Colui, che teco dianzi era a nascoso
Colloquio credi che a me ignoto ei sia?
Ester.Lassa! che feci?
Jefte.                                        Invan Jefte non siede
Di Mosè sulla cattedra tremenda:
Regnar so: moto esser non può di fronda
Ch’io in Engaddi non veggia. Il padre tuo
Posa là su que’ monti, in romito antro: