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476 | illustrazioni e discussioni, v |
disse molto svelti! E il 20 aprile si era sempre allo stesso punto, e anzi sempre molto sulle generali. Rispondendo al Fauriel, gli diceva:
Come mi riesce gradito l’interesse che voi prendete al mio lavoro! Io sono più che mai del vostro avviso circa la poesia. Occorre ch’essa sia tratta dal fondo del cuore; occorre sentire, e saper esprimere i propri sentimenti con sincerità: io non saprei come esprimermi altrimenti. Che peccato che dopo aver preteso di fare della poesia senza queste qualità, ora si pensi a sciuparla con queste medesime qualità!
Aveva via via ampliato il disegno, e ben fissato oramai, anche in parecchi particolari. «Ma», soggiunge, «io ho tuttavia pensato di non troppo occuparmi di questi se non quando ci sarò. E quanto allo stile e alla versificazione, dopo essermici un po’ tormentato, io ho trovato che la maniera più facile è di non pensarci affatto. Mi è parso che sia impossibile applicare, nel momento della composizione, alcuna dello regole che o si può avere apprese o la nostra esperienza può suggerirci; che tentare di farlo, è riuscire a guastar tutto; e che occorra pensar bene, pensare il meglio che si può, e scrivere».
Il 9 febbraio 1814, il poeta annunzia all’amico critico che son compiuti tre degl’Inni sacri. «Il che non vuol punto dire», dichiara, «che io abbia messo da parte il poemetto, benchè da parecchio tempo non v’abbia rimesse lo mani: tutto il mio disegno è fatto, e alcuni pezzi scritti». Ma a quei primi tre Inni tenne dietro un quarto e poi un quinto, e poi le Odi, o poi le Tragedie, e poi il Romanzo; e il poemetto non sbocciò mai. Anche di quel «commencement du premier chant» non fu possibile mai trovar traccia; e dal naufragio non s’eran salvati, in grazia della memoria d’un amico, Tommaso Grossi1, se non due versi, la chiusa d’un’ottava:
- ↑ In una lettera al Giusti (Epistolario di G.G., v. II, p. 250, lett. 302): «... Quando parli del concetto che si presenta splendido alla mente, e che costa tanto sforzo a tradurlo sulla carta, e riesce sempre monco, mi tornano alla memoria due versi del nostro Alessandro, che si trovano in una corta filastrocca inedita e non compita, che lavorò da giovane, e che aveva per titolo: L’innesto del vaiolo. Volendo anch’egli significare in versi quel che tu significhi in prosa, finiva un’ottava cosi: E sento come...,.». Cfr. per tutto ciò Il decennio dell’operosità poetica di A. M., premesso al vol. III delle Opere di A. M., Milano, Hoepli.