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456 illustrazioni e discussioni, iv


A Giorgio Briano, ch’era stato il suo grande elettore ed ora non voleva rassegnarsi alle dimissioni di lui, il Manzoni scriveva da Lesa, il 7 ottobre ’48, una lettera ch’è un monumento di onestà politica e di fino senso della realtà. Gli diceva tra l’altro:

...Ma abbia pazienza... Per quanto io veda come possa essere strano in questa urgenza e gravità di cose il parlare di un uomo inconcludente, e il parlarne lui medesimo, e a persona sicuramente occupatissima, bisogna che io mi giustifichi con Lei, e la convinca che quell’inetto, contro il quale Ella insorse tanto cortesemente, fu scritto non solo con verità, ma con proprietà rigorosa, relativamente (veda che la mia modestia non è senza limiti) alle qualità che si richiedono in un uomo pubblico. Per non toccarne che una, ma essenzialissima, quel senso pratico dell’opportunità, quel saper discernere il punto, o un punto, dove il desiderabile s’incontri col riuscibile, e attenercisi, sacrificando il primo, con rassegnazione non solo, ma con fermezza fin dove è necessario (salvo il diritto, s’intende), è un dono che mi manca, a un segno singolare.

«Utopista» impenitente, a lui «il fattibile» le più volte non piaceva, anzi ripugnava; e d’altra parte, nelle assemblee sentiva d’essere «un irresoluto» e un timido. «Ardito finchè si tratta di chiacchierare tra amici», soggiungeva, «nel mettere in campo proposizioni che paiono, e saranno, paradossi, o tenace non meno nel difenderle; tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato, quando le parole possono condurre a una deliberazione. Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili, per lo meno, in una riunione, dove si parli per concludere; io sarei l’uno e l’altro nello stesso tempo». Perciò rinunziava subito a partecipare a quelle riunioni dove l’utopia conviene che s’acconci al fattibile: il suo posto era meglio tra gli «amici», dove arditamente avrebbe potuto avventare e sostenere quelli che agli uomini pratici parevano «paradossi». Gli amici avrebbero pensato a diffonderli nel popolo, e quei paradossi sarebbero serviti di lievito agli avvenimenti futuri. La lettera concludeva:

È una cosa dolorosa e mortificante il trovarsi inutile a una causa che è stata il sospiro di tutta la vita; ma Ipse fecit nos et non ipsi nos, e non ci chiederà conto dell’omissione, se non nelle cose alle quali ci ha data attitudine. Io non posso far altro che raccomandar questa causa a chi ha e l’ingegno e gli altri mezzi necessari per aiutarla efficacemente; e farei con grande istanza questa raccomandazione a Lei, se ce ne fosse bisogno.