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manzoni e napoleone iii 455

pastore, s’accostano all’urna e vi gettano «semplici e quete» la pallina bianca o la nera, «e lo ’mperchè non sanno». Ammirava il D’Azeglio, il suo Massimo; ma per conto suo non sapeva che farsi dell’ammonimento che questi gli scriveva per indurlo a dare il suo nome al voto per l’annessione: «Giudizio! Cose possibili e non poesia, per carità!». Ammirava anche più sinceramente e incondizionatamente Cavour, un massimo «più vero e maggiore»; ma insomma egli aveva chiara e precisa la coscienza che il suo posto non era nè troppo vicino nè sotto quegli uomini di Stato. A lui, sovrano intellettuale d’Italia, toccava una missione lontano e fuori delle burrasche della politica: la sua politica era di non farne. Egli era, e doveva rimanere, un utopista. Sacerdote dell’ideale, a lui spettava di mantener sempre acceso il faro, verso il quale ammiragli e ciurma dovevan costantemente mirare. Facessero i Balbo, i D’Azeglio, i Gioberti, i Cavour l’arte loro il meglio che potessero o sapessero; cercassero di tradurre in realtà la bella e amabile fantasia che tanti petti scoteva e inebriava, e di vincere le immani difficoltà che attraversavano la via, procedendo cautamente a piccoli o a lunghi passi, o magari segnando il passo o arrestandosi1. E continuasse a osare splendidamente Garibaldi, e a tramare e ad agitare Mazzini. A lui, poeta, il cómpito di non lasciarsi fuorviare dalle contingenze, di non occuparsi delle difficoltà, di tener sempre alta e splendente, sul promontorio inaccessibile alle onde della politica, la face dell’utopia: l’utopia fulgida d’un’Italia «libera tutta tra l’Alpe ed il mare»,

Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor.


  1. «In politica», ammoniva Cavour (Discorsi, vol. IX, p. 490), «ciò che a mio credere bisogna anzitutto sfuggire, se si vuol riuscire a qualche cosa, è la taccia di utopista. La riputazione che più facilita la riuscita delle trattative nella sfera politica e diplomatica, è quella di uomo pratico». È in una lettera del 1859 (Lettere ecc., raccolte da L. Chiala, vol. III, p. 141) dichiarava: «È duro l’avere a rinunziare ad alzare la voce a favore dell’infelice Venezia; eppure è forza il far tacere le più vive simpatie politiche, per non sacrificare il possibile al desiderabile».