Ond’io lieve men vado a mia salita, 165Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
Di chiaro esempio, o di veraci carte 170Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
l’orma stampò de l’italo coturno:
E l’aureo manto lacerato ai grandi, 175Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre 180Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L’immondizia del trivio e l’arroganza
E i vizj lor; che di perduta fama 185Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Nè lodator comprati avea quel sommo
D’occhi cieco, e divin raggio di mente, 190Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d’Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene, 195E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. E tacque; e scosso il capo, 200E sporto il labbro, amaramente il tôrse,
Com’uom cui cosa appare ond’egli ha schifo.