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nota alle odi | 345 |
Il consigliere Grüner narra in una sua lettera d’aver sentito leggere dal Goethe il testo dell’ode manzoniana. Il gran poeta, egli scrive, «era quasi trasfigurato e commosso, i suoi occhi mandavano scintille, la precisa accentazione di ogni parola e insieme l’espressione m’incantavano; e quando ebbe finito, ci fu un momento di pausa. Ci guardammo a vicenda, e leggemmo il nostro entusiasmo l’uno negli occhi dell’altro. Non è vero, riprese Goethe, non è vero che Manzoni è un gran poeta? Io vorrei, gli risposi, che Manzoni fosse stato presente a questa declamazione: egli avrebbe avuto un ampio compenso dell’opera sua». (Cfr. L. Senigaglia, Relazioni di Goethe e di Manzoni, nella Rivista contemporanea, Firenze, 1888). — La sera del 15 luglio 1827, il vecchio poeta mostrò all’amico Eckermann il Romanzo manzoniano allora allora giuntogli, in tre volumi, assai ben rilegati e con una dedica a lui. «Di Manzoni non conosco nulla», osservò l’assiduo visitatore, «se non l’ode su Napoleone, che ho riletto in questi giorni nella Sua traduzione, e grandemente ammirata. Ogni strofa è un quadro». E il Goethe: «Lei ha ragione: l’ode è eccellente. Ma trova lei che in Germania uno solo ne abbia parlato? È perfettamente come se quell’ode non esistesse! Eppure è la più bella poesia che sia stata composta su quell’argomento».
Annota il Bonghi (Op. ined. o rare, I, 15-16): «Certo che il Manzoni non la pubblicò lui. Dopo averla scritta, la mandò alla Censura per ottenerne licenza, e questa gliela negò. Ma egli, come raccontava, aveva usato un piccolo sotterfugio: alle Censura ne aveva mandato due copie, facendo conto che qualcuno degl’impiegati di polizia n’avrebbe trafugata una, e così la poesia si sarebbe divulgata. Il che appunto accadde, e sin dal giorno dopo tutta Milano la leggeva, senza che all’autore se ne potesse far colpa». Cfr. la nota di G. Sforza è p. 225 del vol. I dell’Epistolario di A. M., Milano, 1882. — Dalle Carte segrete della polizia austriaca (II, 317) si apprende come, ancora nel 1823, «la polizia di Vicenza avvertisse essersi sparsa un’ode in morte di Napoleone, della quale sospettavasi autore un tal Manzoni di Verona, mentre poi un poliziotto letterato, il Lancetti, ne asseriva autore il Monti!». Cfr. D’ancona, Poesie di A.M., Firenze, Barbèra, 1892, p. 88. Che l’Ode fosse subito largamente diffusa manoscritta, e favorevolmente accolta, lo provano due letterine del poeta all’amico Giambattista Pagani, in Brescia. Nella prima, del 6 ottobre 1821 (Carteggio, I, 531), gli dice: «.... non mi duole troppo di essere disobbligato dal darti le interpretazioni che mi accenni..., giacchè inclino a credere che se a quei passi, pei quali tu brami rischiarimento, vien dato da altri un senso diverso da quello dell’autore, i passi stessi e l’ode non ponno che starne meglio. Cercando io le ragioni dello strano incontro di quel componimento, ne trovo due potentissime, nell’argomento e nell’inedito: forse una terza è una certa oscurità, viziosa per sè, ma che ha potuto dar luogo a far supporre pensieri alti e reconditi dove non era che difetto di perspicuità. Quanto alla copia ricorretta che mi chiedi, devo con sommo dispiacere negare a me stesso il bene di farti cosa grata