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prefazione | vii |
un uomo serio possa aver voglia di stare a sentire e di mettere in carta le sue novelle; e, quasi per pia condiscendenza, dopo molte smorfie, dice il fatto suo, non come ad un fanciullo o ad un pari suo lo direbbe, ma elevando a suo modo lo stile, abborracciando, e come va parlando ad uomo cui vuol mostrare gentilmente di non ritenere rimbambito o affatto perduto di cervello. Il che è a scapito della naturalezza e della vivacità della forma. Ma io non ho lisciato nè raffazzonato nulla. Presento studi dal vero.
A chi ha scorso il Vocabolario (e apparrà ancora meglio dalle Novelle) non possono essere sfuggite queste due note de’ nostri vernacoli: molti punti di affinità coi tipi originali, latini, nonchè con l’italiano arcaico; e mollezza di pronunzia, tuttochè. nel suono delle vocali toniche, spesso fedele al latino anche più dell’italiano letterario. L’abruzzese, che ha sempre avuto, ed ha, braccia assai robuste (Cicerone, Livio, Strabone, Plinio, lo chiamarono fortissimo; e i romani istessi, nella Guerra sociale, lo provarono), ha lingua pigra, indolente, schiva de’nessi ardui. Nella sua bocca, l’onda vocale batte, di regola, le linee meno faticose; talchè la incidenza è sempre su’ punti meno alti, più prossimi, e in generale più facili. Così, p. e., á facilmente piega ad e; ovvero, dopo aver battuto in e, torna ad a, quasi per onda di riflusso; e formasi dittongo disteso, in cui e fa da prepositiva. In bocca all’ortonese, ó piega ad u, e senti Ortuna ecc. E ciò senza dire dell’affievolimento delle protoniche, delle postoniche e delle finali; della costante remozione dell’iato in tutti