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288 una sbornia


che mi faceva invidia, quasi odio; e che a me non fosse stato mai possibile: io non ero che un sopraddipiù accanto a loro. Ma li amavo, li amavo, fino a sentir il mio cuore battere più forte. E mi veniva da piangere. Ma pensando che, di là, la signora Costanza aveva fatto lo stesso per un morto, pensavo che io non dovessi piangere per non portarmi qualche sventura. Io stesso pensavo di essere la disgrazia della signora Costanza. Ma a sorridere non mi riesciva; e restavo con uno sconforto indeterminato e confuso; e, allora, mi veniva voglia di tornare subito in servizio. Pigliavo il cappello e uscivo. Il paese, Poggibonsi, la sera era molto rumoroso: i caffè si empivano. Il fiumiciattolo che passava sotto il ponte presso la stazione scrosciava tra i sassi. Le ragazze a braccetto mi sfioravano con i gomiti; i ragazzi m’urtavano. Qualcuno, da una bottega, mi chiamava a bere. Io rispondevo sorridendo e, secondo il caso, togliendomi il cappello e provando un piccolo brivido quando era qualche signore. A metà della strada, vedevo la finestra della cucina dove certo era la signora Costanza; e allora tornavo a dietro. Ma pensando a lei,