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Era vero che Ghìsola si faceva spedire le lettere a Badia a Ripoli; ma non poteva darsi che avesse cambiato dimora soltanto da pochi giorni? Di che cosa poteva trattarsi?
Si sforzò di definire tutte le specie di dubbii; ma poichè non ne teneva nessun conto, gli fu impossibile rispondersi. Per la prima volta, tutto il cumulo delle cose tristi gli parve lontano da sè e che gli fosse possibile distruggerlo. Tutte le sofferenze gli parvero esteriori, provando una piccola felicità che non somigliava a nessun’altra. Pensò: «Perché ho creduto subito alla lettera?».
Durante il viaggio, gli sembrò d’essere in uno stato d’incoscienza e con la febbre. Ma aveva fretta di giungere.
Il treno correva vicino all’Arno, la cui acqua luccicava come se migliaia di specchi vi si rompessero insieme; oltrepassava le pinete a picco, acuminate, ancora sparse d’ombre violacee, tra i pioppi bianchi e tremuli, dietro i pali telegrafici; i cipressi a fasci, cipressi come rinchiusi dagli altri cipressi. Andava verso la città sovra la quale si raccoglieva una dolcezza d’azzurro, tra le colline l’una più soave dell’altra. Quella bellezza meravigliosa l’umiliava. Mentre l’amore, che fino allora aveva portato a Ghìsola, gli pareva un’indegnità abominevole senza saper perchè: «È possibile che io non la debba amare?».