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tra padre e figliolo. Sempre dì più si trattarono come due estranei costretti a vivere insieme; e Domenico aveva smesso addirittura di voler su di lui qualunque autorità; credendo che, comportandosi a quel modo, gli facesse rimorso. Ma, ormai, non l’avrebbe perdonato mai più. Durante magari un mese, Domenico era stato capace di prendere tutto in scherzo; e ambedue si dicevano facezie, che qualche volta doventavano litigi.
Pietro era sempre socialista, ma andava meno con gli operai. Si vergognava d'aver già vent'anni, e d’essere così a dietro degli studi: questa cosa l’avviliva.
Presa a Firenze una camera in Via Cimabue, mangiava a una trattoria, lì vicina.
Stava lunghe ore con la testa tra le mani, imaginandosi di studiare; con un’ansia attraversata e tagliata in tutti i sensi da malumore e da malinconia, come da linee tirate con una squadra.
Si sforzava d’essere soddisfatto e di affezionarsi alla scuola; ma gli pareva che i giorni fossero così staccati e separati l'uno dall'altro che sentiva prendersi dallo scoraggiamento. Il giorno dopo non era capace più a ricordarsi e a raccapezzarsi del giorno avanti; e provava difficoltà a pensare ai giorni successivi.
E non riuscendo quanto avrebbe voluto,