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cucina, fra la tavola piccola ed il paravento della zia, e ci fece sedere, la Titina ed io, una in faccia all’altra, con un cesto di vimini in mezzo, pieno di biancheria da accomodare.

La mattina ci faceva scopare, spolverare, rifare i letti, sfaccendare per la casa con un gran grembiule di tela davanti; poi ci mandava in camera a pettinarci e vestirci. E quando eravamo in ordine, bisognava sedere a lavorare. Però, all’ora di fare il pranzo, una settimana per ciascuna, si lasciava il lavoro d’ago, e s’imparava a cucinare sotto la direzione della sposa, più intelligente e più energica di quella della zia.

Anche a volerlo, non si sarebbe potuto dire, in coscienza, che ci facesse del male. Se soltanto ci avesse messa un po’ di buona grazia nell’insegnare, nel comandare!... Ma non era nel suo carattere, nel suono della sua voce, ne’ suoi modi. Era aspra per natura, e quell’asprezza la chiamava sincerità. Infatti era