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XIV.
I miei amici stavano congedandosi da Fulvia.
— Domani, ella diceva, non riceverò nessuno sino alle quattro; perchè voglio studiare, e loro mi fanno perdere tutto il mio tempo.
— Dunque verremo alle quattro, disse Giorgio.
Io pure le porsi la mano in atto di saluto, e, trattenendo la sua, domandai:
— Ed io, a che ora debbo venire?
Comprese ella l’impertinenza di quella domanda, che rilevava a tutti che io mi credeva in diritto di aspirare ad una preferenza? Comprese ella, che agivo con lei, artista, come non avrei mai agito con nessun’altra signora? Comprese che, stupido e vile, la insultavo senza ragione?
Forse lo comprese, e lo perdonò al mio amore, inasprito dalla presenza altrui, che mi strozzava in gola la suprema parola; o forse il suo animo eletto non sospettò neppure la viltà del mio pensiero, e, sentendosi superiore ad ogni insulto, non pensò che altri l’insultasse. E non interpretò nella mia domanda, che il desiderio di vederla più presto, e la speranza d’essere distinto dagli altri. Ella rispose: