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volte Fulvia Zorra. Per tutto il tempo che rimasi tenni quel pezzetto di carta tra le mani, lo piegai in quadrato, in triangolo, ne feci una barchetta, un cappello da carabiniere, un imbuto, e tante altre cose sciocche; e di volta in volta prima di ripiegarlo guardavo Fulvia, poi leggevo il suo nome, poi tornavo a guardarla, e mi pareva di esprimere qualche cosa che ella dovesse comprendere. Quando si fece tardi, e stavamo per congedarci, io e tutti gli altri che eravamo a far la corte a Fulvia, ridistesi accuratamente quel cencetto di carta, e sotto il nome della giovane scrissi in caratteri microscopici Massimo Guiscardi. Poi le misi dinanzi quel documento e le dissi con un’aria da oracolo: «Guardi.»

— Ebbene, non vedo nulla! mi rispose.

— Qui, legga; e le accennavo quei due nomi vicini vicini, coll’aria che doveva avere la sfinge nel proporre i suoi problemi.

Ella guardò bene e poi disse:

— Io non vedo che il suo nome.

E le pareva nulla! E non era commossa! Il mio nome sotto il suo; un idillio, un romanzo, un poema un avvenire, una vita... Ella non comprendeva la poesia di quel ravvicinamento. La trovai stupida, e spingendo la carta sulla tavola con disprezzo le dissi:

— Non capisce mai nulla lei!

Allora ella capì il senso ch’io dava a quel gioco di